È una fredda giornata invernale. Il grande giardino è spoglio e sonnolento, popolato solo da enormi scheletri di alberi senza colore. Non c’è nessuno, la terra è fredda. Tutto pare immobile, come se il tempo si fosse fermato. Il vento sibila in modo soffocato e singhiozza malato. Il fogliame è indeciso e prende a volteggiare in tondo, senza sapere dove andare. Non so perché mi trovo qui, non so come ci sono arrivato. So solo che sto aspettando qualcosa, qualcosa che tuttora mi è ignoto. Tra l’erba incolta giace incustodito un vecchio pallone sgonfio, è incrostato di terra ed è tutto sfilacciato. Indeciso, prendo a calciarlo contro un ombroso muro della villa abbandonata che sta di fronte a me. C’è freddo e l’aria gelida mi taglia ferocemente le guance. Il sole c’è, ma è là in alto, lontano, coperto da un leggero strato di foschia.
Ma all’improvviso sento qualcosa: dei passi, qualcuno si sta avvicinando verso di me. Sento lo scricchiolio della ghiaia farsi sempre più intenso. È a pochi metri, ne sento il respiro. Mi giro e lo vedo: sì, è proprio lui. In piedi di fronte a me, mi sta guardando. Il cuore batte all’impazzata e ho la pelle d’oca. Improvvisamente mi dimentico tutto ciò che volevo dirgli e un inquietante senso di vuoto prende a rimbalzare da una parte all’altra, di quell’enorme stanza, dove sono rinchiusi i pensieri. Mi sento intimorito, non so che fare. Poi lui inizia a sorridere e viene verso di me, i suoi occhi luminosi riescono in qualche modo a trasmettermi un improvviso senso di fiducia. E allora mi butto tra le sue braccia, come solo un nipote può fare con un nonno che è stato via fin troppo tempo. Ha un buon profumo, forse di ginepro. È un momento intenso, tutto ciò che prima credevo importante scompare totalmente dai miei pensieri. Lui è qui, non più in una piccola e vecchia fotografia. Poi ci guardiamo e lui mi fa un cenno col capo che sembra dirmi “Su, dai! Ora Andiamo.”
Ha la mano calda come il pane e morbida come il burro, non la lascerei per nient’altra cosa al mondo. Il paesaggio attorno è cambiato: il giardino non è più freddo e spoglio, ma rigoglioso e pieno di fiori profumati. L’aria è calda e il sole batte forte sulla casa alle nostre spalle, mentre una leggera brezza ci accarezza dolcemente i visi. Le api ronzano golose da un giglio all’altro e gli uccelli cantano allegri nel cielo. Nell’aria ci sono centinaia di pollini che, svolazzanti, ballano quell’antica ed eterna danza con cui è stato creato il mondo. Il ghiaccio è scomparso, la nebbia è ora un lontano ricordo. Lui mi tiene per mano e cammina al mio fianco. Però lo so, lo so che non c’è niente di reale. Ma non mi importa… mi godo il momento. Cerco di stringere forte forte quella calda mano, percepisco l’energia che sprigiona. Poi lo guardo negli occhi, ha uno sguardo molto espressivo.
Chissà cosa avrei potuto fare con lui, chissà dove mi avrebbe portato, cosa mi avrebbe fatto vedere, cosa mi avrebbe raccontato… perché, si sa, i nonni hanno sempre tante storie da narrare ai nipoti. Chissà come sarebbe stato chiamarlo la sera per dirgli come vado a scuola, fare una passeggiata con lui. Mi hanno detto che aveva il senso dell’umorismo, chissà quante barzellette mi avrebbe insegnato. Ogni tanto, quando sono a pranzo da mia nonna, me lo immagino seduto al tavolo con noi. Lo guardo con attenzione, studio ogni suo minimo movimento. E poi mi chiedo come sarebbe stato conoscerlo e stringere veramente quella mano calda come il pane e morbida come il burro. Ma adesso, in questo stranissimo sogno, lui è qui accanto a me. E stiamo camminando, insieme. Io lo guardo, lui mi guarda e poi gli dico: “Nonno, ti voglio bene.”
Alessandro Frosio
Bravo che hai messo un po’ di bosco all’inizio
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