Era una fredda sera d’inverno, e c’era buio. Era l’appendice di una giornata vuota, di un’esistenza effimera, che aveva tentato di trovare un senso nel falso conforto delle lacrime. Ero solo, abbandonato da me stesso, incapace di trovare lo stimolo di voltare pagina, e di ricominciare.
Tutto era finito. Tutto quello che mi ero costruito, tutto quello che ero, s’era improvvisamente crepato, incrinato, per poi crollare con la rapidità di un castello di carte colpito da un soffio leggero.
Un treno in corsa, uno sferragliare di ferri arrugginiti, e la mente burrascosa che continuava a tornare a quel momento. Lacrime amare navigavano sul mio volto, rigandolo e sconquassandolo facendolo sbatacchiare contro gli scogli, tra gli spruzzi e gli schizzi di un salato tormento di speranze vane. E quei volti non li avrei più rivisti. Quei volti, che tanto avevo amato, di cui tanto mi ero fidato, erano svaniti per sempre. Ancora. Di nuovo. Un’altra volta.
Ero io, forse, il problema di quel matto girotondo? Che fossi io l’errore, lo sbaglio, la sbavatura tra le righe di questo misterioso romanzo senza fine? Mi sentivo solo, senza senso, una sorta di Re Mida al rovescio. Tutto quello che toccavo, si spegneva. Tutto quello che sognavo, moriva. E tutte le relazioni, i legami, si spezzavano. Fuori c’era buio, freddo, e dentro di me albergava il vuoto. Mi sentivo sbiadito, privo di obiettivi, e non riuscivo a vedere oltre la punta del mio naso.
Una spessa nebbia incombeva dinnanzi a me: il futuro non era mai stato così incerto. E così non mi rimaneva altro da fare che voltarmi, rivolgermi al passato, per cercare un significato scrutando attentamente nelle pieghe dei ricordi. Ma quelli erano ricordi amari, ricordi di dolore, e così tornavo immerso in quel mare in burrasca, in quegli spruzzi e quegli schizzi che mi colpivano violentemente. Ed io ero lì, solo, in mezzo a quel mare in tempesta. Solo, su una piccola barchetta. L’unico, in quell’infernale bolgia che ululante promanava quell’agghiacciante silenzio che avvolgeva ogni forma, ogni speranza, in un gelido e vaporoso abbraccio.
E colai a picco, naufragai per l’ennesima volta così com’ero naufragato sei mesi prima, due anni prima, tre anni prima, sei anni prima, dieci anni prima. Come ero naufragato sempre. La vita, la Vita mi pareva solo questo: un continuo tormento. Un continuo naufragio.
“Uomo! Uomo!”
Una voce prese a chiamarmi. Una voce che non avevo mai udito prima, il cui suono mi era totalmente estraneo. E non veniva da dietro, non veniva dal passato. Non capivo. Sembrava quasi giungere da davanti, dal futuro, anche se pareva ancora lontana. La nebbia era fitta, non riuscivo a vedere nulla se non un malinconico ammasso di caligine malata. Avevo paura, sconvolto com’ero dal freddo che congelava le mie guance arrossate dalla malinconia.
“Uomo! Uomo!”
Ancora, ancora una volta. Una voce. Quella voce. E allora provai a muovermi, iniziai a camminare. Un passo, poi un altro, un altro e un altro ancora. Presi ad andare avanti, verso il futuro, tentando di penetrare quel fitto banco d’indifferenza, di nebbia, di gelo, di buio, e distogliendo per un attimo lo sguardo da ciò che mi stava dietro. Dal passato, dalle pieghe dei ricordi, da quel lontano sferragliare che si faceva sempre più flebile ed incerto.
Vidi una figura, che stava ritta in piedi con una posa sicura, decisa. Sembrava in attesa. E di cosa? Di chi? Mi guardai in giro, scrutando il breve orizzonte. Aspettavo la voce di qualcun altro che rispondesse, che dicesse qualcosa del tipo eccomi-eccomi, arrivo-arrivo, che andasse verso quella figura salutandola amichevolmente. Ma nessuno parlava. C’era solo il silenzio, e il respiro di quella figura. Un respiro calmo, regolare, che si faceva sempre più intenso. Sempre più forte. Sempre più vicino.
Che fossi io, l’oggetto di così tanta attesa? Che fossi io, l’Uomo che quel Qualcuno, quel Mistero, stava aspettando? Oppure era l’ennesimo abbaglio, l’ennesima delusione, l’ennesimo buco nell’acqua? Mi voltai un’altra volta, e pensieroso detti uno sguardo al mio immediato passato.
Quei ricordi tornarono velocemente alla mente, riprendendo a rimbalzare furiosamente da una parte all’altra, di quell’infinita stanza, in cui sono rinchiusi i pensieri. Avevo fatto male, a fidarmi di loro, avevo fatto molto male. Tutti era parso bello, all’inizio, tutto sembrava che potesse andare per il verso giusto. Ma poi, alla gioia, era sopraggiunta la delusione, la riconoscenza aveva presto lasciato il posto alla paura. La compagnia, alla solitudine più totale. E quindi che fare? Che fare? Ripetere ancora gli stessi errori del passato?
“Uomo!”
Quella voce mi chiamò ancora, per la terza volta.
“Uomo! Ma tu chi sei?”
Silenzio. Non sapevo che rispondere, non sapevo che fare. Chi ero io? Cos’ero? Fino a due mesi prima avrei risposto con molta fermezza, perché sapevo benissimo chi ero. Ma ora non lo sapevo più, non mi conoscevo più. Nessuno, prima di quel momento, m’aveva posto una domanda così tanto difficile.
Quella figura mi sorrise, tendendomi la mano. Era una mano grande, robusta, segnata dalle stigmate della Vita. Mano che aveva sofferto, che aveva gioito, che aveva sofferto e che poi aveva gioito di nuovo: morte e vita, morte e vita, Morte e Vita. Naufragio, e Resurrezione. Naufragio, e quindi, Resurrezione. Ed ora, quell’eroica mano, era lì. Era lì per me.
“Non importa chi eri, non importa chi sei: io ti conosco, e questa sera sei ospite a casa mia.”
Un invito, e ancora quel braccio teso verso di me. Non lo conoscevo, non sapevo nulla di Lui. Avrei potuto andarmene senza rivolgergli una parola, oppure scappare cercando di nascondermi. Poteva essere chiunque: un malintenzionato, magari, un assassino o un ladro o un sadico o un approfittatore. Un ingannatore. L’esperienza passata mi ammoniva di non fidarmi, di stare attento: mi ero forse dimenticato di quanto avevo appena passato? Non mi era bastata la lezione appena vissuta? Dovevo andarmene, dovevo scappare. Dovevo correre, correre a perdifiato, cancellare le mie tracce e dirigermi verso il nulla, il silenzio, trovando rifugio nei meandri dei miei ricordi. Dovevo. Ma non lo facevo. C’era qualcosa, dentro di me, che mi diceva di restare. E di aspettare.
“Uomo: lascia tutto quello che hai. E vieni. Vieni, e seguimi!”
Lo guardai negli occhi, intensamente, e d’improvviso le mie lacrime si asciugarono. Le spalle erano stanche, logore, stremate dal forte peso che si portavano appresso. E allora obbedii alla sua parola: tolsi quello zaino di dosso, e lo buttai per terra. Conteneva tutto quello ero, i brandelli di quel poco che avevo. E lo abbandonai lì, in mezzo all’indifferenza del nulla, finché non scomparve in quel banco di nebbia ormai lontano.
Ora ero libero, leggero, pronto per una nuova vita. C’era il sole, il sole forte e accecante che era tornato ad illuminare d’immenso ogni cosa. Fu allora che sorrisi. Fu allora che mi avvicinai. Fu allora che accettai l’invito. Fu allora che diventai ospite in casa sua. Fu allora, e soltanto allora, che tornai ad Essere. Facendomi fare, abbracciando o meglio facendomi abbracciare dal mistero delle cose, obbedendo ai sussurri della vita. Vita che è un continuo Naufragio. Vita, che essendo un continuo Naufragio, è anche, e soprattutto, una continua Resurrezione.
Eccomi: sono tornato.
Alessandro Frosio