Ma cosa ci faccio, io, in questa città? (2/4)

Seguito di “Ma cosa ci faccio, io, in questa citta? (1/4)

E poi me n’andai, dall’ospedale. Firmai il foglio delle dimissioni, preparai il mio zaino, salutai un infermiere ringraziandolo per tutte le cure che mi aveva prestato insieme ai suoi colleghi, e poi uscii. Fuggii. Così, da solo, senza avvisare nessuno. Non sapevo neanche da che parte andare: in quel posto ci ero entrato da moribondo, su una sedia a rotelle, e non ricordavo pressoché nulla di quei momenti di dolore.

Fuori c’era il cielo azzurro, il sole caldo e rassicurante, con un leggero venticello che mi scompigliava i capelli. Io ero incredulo, sbalordito, di fronte a tutta quella meraviglia. Mi guardavo attorno come se fossi un bambino appena nato, un cucciolo uscito dal grembo materno che ancora non conosceva nulla del mondo, e che con occhi curiosi cercava d’assorbire ogni frammento della realtà. E anche la cosa più banale, il particolare più innocuo, era carico di stupore. Di significato.

Attraversai la strada, e lì iniziai a sorridere. E poi presi a saltellare, dirigendomi verso il parco. Il parco di casa mia, quello che gli sta di fronte. E vidi gli alberi, i cespugli, le foglie che svolazzavano al contatto con la brezza del mattino. E allora mi misi a correre sulle mie gambe incerte, a ridere, e presi a piangere di fronte a tutta quella bellezza. Le lacrime presero a bagnarmi tutto il volto, ad inumidirmi gli occhi che divennero delle perle di cristallo che presto andarono in frantumi, rompendosi in fiumi scroscianti di trepidante emozione. Era tutto bello, era tutto magico. Era tutto… ordinario. Ma straordinariamente ordinario.

E quando arrivai a casa, suonai il citofono. Subito si levò una voce molto familiare: la donna che aiuta la mamma a pulire casa. “Ale! Ale, ma sei tu?” mi disse sbalordita. E poi arrivò D., che m’accolse scodinzolando come una matta, e poi il cancellino s’aprì ed io entrai e feci quelle scale e varcai quella porta e… e vidi mia madre.

Stava in cucina, seduta sullo sgabello che stava a capotavola, china su alcuni fogli. Forse delle lettere, forse un libro, forse documenti di lavoro. E venne da me, e mi abbracciò, e mi strinse forte forte dopo tutto quel tempo passato lontano. Non poteva venire nessuno a trovarmi, in ospedale, perché eravamo in tempi di Covid. L’unica compagnia l’avevo trovata in alcuni fumetti, in alcuni libri, in alcune macchie d’umidità che disegnavano il soffitto. E nella voce del mio vicino di letto, Vincenzo, un muratore in pensione che con il suo buffo accento siciliano mi parlava delle avventure di una vita. E di quanto fosse fiero di suo figlio, e di quanto sperasse di veder presto i suoi nipotini.

E nel sorriso di quella suora, Francesca, che veniva a salutarmi ogni mattina facendomi recitare l’Ave Maria. Regalandomi i dieci minuti più belli di quelle buie giornate.

Io potevo solo ascoltarli, il caro Vincenzo, la cara Suor Francesca. Non potevo parlare. Con quei tubi nel naso, erano poche le cose ordinarie che mi erano concesse. Non potevo alzarmi se non per sedermi su quella sedia, che stava tra il letto e il comodino, che avevo così tanto desiderato. Che gioia, quando me la portarono! Non mi sembrava vero potermi sedere su una sedia, una sedia vera, con lo schienale, e appoggiare le gambe a terra! Era stato così straordinario, così rivoluzionario, potermi sedere su una sedia.

Non potevo allontanarmi da quei cinquanta centimetri quadrati, intricato com’ero da tutte quelle catene che mi soffocavano il respiro. E quanto era stato bello, magico, incredibilmente straordinario, quel giorno in cui mi staccarono per qualche minuto per permettermi d’andare in bagno in autonomia! Che emozione, muovere quei passi. Che gioia, poter allontanarsi di qualche metro da quell’infernale letto di morte. E farlo da solo.

Segue

Alessandro Frosio

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