Ma cosa ci faccio, io, in questa città? (1/4)

Questa riflessione mi è uscita un po’ lunga. Ho provato a ridurla, a sintetizzarla, ma non ce l’ho fatta e quindi la pubblico in più puntate. Chiedo venia, caro lettore, cara lettrice: porta pazienza, il dono della sintesi non ce l’ho mai avuto. E mai ce l’avrò.

Ma cosa ci faccio, io, in questa città?

È questa la domanda che rimbalza nella mia mente, ora, mentre sono qui ad ammirare dalla finestra il profilo di queste case, e di questi palazzi, che paiono non dormire mai. Mi trovo all’ottavo piano di un condominio di piazza Gerusalemme, a Milano, e sono le ventidue e trentaquattro di sera.

Sono qui per uno strano caso del destino, per una semplice concatenazione di coincidenze che hanno forgiato di secondo in secondo la mia breve esistenza. Del resto, ultimamente, la mia vita è proprio questo: una continua improvvisazione, una continua sorpresa, dettata dalle coincidenze e dalle novità contingenti che continuano a guidarmi in questo mare, infinito mare, in cui ogni attimo è intriso di Mistero.

Ero a studiare nella Cappella dell’Università, dietro l’altar maggiore, su un tavolo che Don Marco ha gentilmente messo a disposizione alle sue pecorelle smarrite che, per un motivo o per l’altro, non riescono a trovare altro posto dove riversarsi in modo matto e disperato sullo studio. Saranno ormai una decina di giorni che usufruisco di quel sacrosanto servizio, soprattutto perché l’abside della cappellina è ben refrigerata, cullata da dei dolci raggi di sole che penetrano dalle finestre che danno su via Francesco Sforza.

Nel pomeriggio sono arrivati Michelangelo e Maddalena, come sempre.

Sentivo dentro di me una forte sensazione di vuoto. Una sensazione che è improvvisamente scomparsa nel momento in cui quel toscanaccio d’un Michelangelo m’ha detto sì-uomo-vieni-che-ti-preparo-il-farro quando gli ho chiesto se potevo autoinvitarmi a casa sua per cena. Ma poi, dopo una manciata di minuti, ecco che quell’astiosa sensazione è tornata ad albergare dentro di me. Una sensazione – quell’odiosa sensazione – che non provavo da tempo.

La conosco bene, questa sensazione. E’ esattamente quella che provai durante quegl’infelici mesi di clausura forzata in casa. Da ottobre 2020 a fine aprile 2021, e ancora più forte nel mese di maggio quando stetti in ospedale per quel mio noioso problema che m’accompagnerà fino al camposanto. Ricordo che, in quei giorni, la sensazione era veramente molto intensa. Non riuscivo quasi a respirare, quanto era forte quel senso di struggente insoddisfazione, d’instancabile oppressione che continuava a schiacciarmi il petto, facendomi soffocare il cuore. Ricordo che, in quei giorni, tutto quello che ero stato, tutto quello che avevo voluto essere, fare, dire, esprimere, si era totalmente volatilizzato. In me, c’era solo il pensiero del nulla.

Non avevo più ambizione, non avevo più impulsi. Non avevo più voglia di vivere. Credevo che tutto sarebbe dovuto finire lì, in quella stanza d’ospedale, che pareva essere l’unica e vera soluzione finale di un anno di tormenti, di sofferenze, di grande ed immensa solitudine. Che senso aveva andare avanti? Che senso aveva? Dietro di me c’era solo un ammasso d’indistinta caligine malata, che tumultuosamente prendeva a vorticare su sé stessa senza un nesso logico, senza un obiettivo preciso. Mi pareva che tutto quanto, tutta la mia storia, tutto il mio Essere, fosse solo un insieme di grandi fallimenti, immense delusioni, infinite malinconie.

Tutto quello che avevo, ormai non l’avevo più. Tutte le esperienze, erano finite. Tutti i sorrisi, si erano spenti. Tutta la luce, era ormai stata assorbita dal buio della notte. Ma di una notte senza luna, senza stelle, senza sogni e senza speranze.

E ormai, io, non ero più. Non mi, sentivo, più.

Segue…

Alessandro Frosio

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